Con una nuova sentenza la numero 5603/2020 la Cassazione (1° Sezione Civile) torna a pronunciarsi in merito ai criteri da valutare per decidere sulla domanda di corresponsione dell’assegno di divorzio in favore del coniuge richiedente.
Stando a quanto disposto dall’art. 5 comma 6 della Legge 898/1970 (Legge istitutiva dello scioglimento del matrimonio) all’assegno di divorzio, deve attribuirsi una funzione assistenziale e compensativa in favore del coniuge che lo richieda.
Ciò richiede da parte del giudice di accertare:
- l’entità del patrimonio di cui gode il coniuge che chieda l’assegno divorzile;
- l’impossibilità oggettiva per il coniuge richiedente di procurarsi adeguati mezzi economici per il proprio sostentamento.
Questi sono in sostanza i primi due parametri cui il giudice, investito della controversia, deve prestare attenzione.
Detti parametri sono necessari a:
- verificare, in primo luogo, il diritto o meno a percepire l’assegno divorzile (l’an);
- stabilire, in caso positivo, l’ammontare (cioè il quantum) di detto assegno.
Oltre a questi elementi, vista la natura perequativo-compensativa dell’assegno divorzile, il giudice dovrà tener conto:
- delle condizioni economiche e patrimoniali delle parti (quindi sia le capacità reddituali, ma anche il patrimonio di cui dispone ciascun coniuge singolarmente);
- il contributo fornito da ciascun coniuge alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune;
- la durata del matrimonio;
- l’età del richiedente l’assegno divorzile.
Il tutto, in modo da consentire a chi richiede l’assegno di raggiungere un livello reddituale adeguato al contributo fornito alla realizzazione della vita familiare, tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate.
Pertanto, funzione dell’assegno divorzile non è quello di permettere al richiedente, di conseguire una autosufficienza economica, o di godere del medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, bensì quello di permettere una sorta di riequilibrio tra le posizioni dei coniugi.
In quest’ottica occorrerà tener conto del ruolo e del contributo fornito dal coniuge economicamente più debole:
- alla realizzazione della vita familiare (si pensi al caso di una moglie che in assenza di aiuti da parte di altri familiari per la crescita dei figli nati dall’unione, rinunci alla propria carriera agevolando in tal modo quella del marito assente spesso per lavoro seguendo lo stesso, insieme ai figli, ogni volta in cui le esigenze lavorative del medesimo richiedano cambi di residenza e dunque traslochi, iscrizione dei figli a nuove e diverse scuole, creazione di nuove reti sociali e di relazione ecc. ecc.);
- alla formazione del patrimonio della famiglia;
- alla formazione del patrimonio personale degli ex coniugi (si pensi al caso di una coppia in regime di separazione dei beni, ove il marito guadagna molto più della moglie, la quale per accudire i figli e aderire ad un progetto di vita familiare con suddivisione spiccata dei ruoli, abbia rinunciato sia alla propria occupazione lavorativa, sia alla formazione di un proprio reddito. In tal caso la moglie ha indubbiamente concorso alla formazione del patrimonio personale del marito, il quale è stato libero di dedicarsi alla propria attività lavorativa, avendo comunque una famiglia e rimanendo la titolarità dei propri guadagni).
Sono quindi questi i parametri cui il giudice si deve attenere per valutare l’esistenza o meno del diritto del coniuge richiedente, ad ottenere la corresponsione dell’assegno di mantenimento.
E’ quanto affermato dalla Suprema Corte, con la sentenza in commento che si pone “in scia” con altre sentenze precedenti del medesimo tenore (Cass. Sez. Un. 11.7.2018 e Cass, 23.1.2019 N. 1882).
Avv. Federica Novaga