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IL REATO DI MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: UNA BREVE DISAMINA ALLA LUCE DI ALCUNE SENTENZE DELLA CASSAZIONE

13/02/2021

Spesso chi si occupa di diritto di famiglia, assiste seppur indirettamente a situazioni affettive e/o coniugali che raggiungono picchi degenerativi, tali da indurre l’avvocato a proporre al cliente di sporgere atto di denuncia querela per maltrattamenti.

Infatti, alle volte può accadere che, nonostante entrambi i membri della coppia abbiano esaurito le risorse umane, affettive e relazionali in forza delle quali mantenere in piedi una comunione di vita,  tale per cui sarebbe forse più saggio e più “salutare” decidere di comune accordo di interrompere il legame ed iniziare separatamente un nuovo percorso di vita, questa situazione di fatto non si verifica o, se si verifica, non avviene in modo equilibrato e maturo.

Mi riferisco a quelle coppie con figli o senza figli che – per ragioni spesso oscure agli occhi degli estranei – nonostante l’estremo disagio e la fatica continuino a stare insieme o a quelle coppie in cui, per uno dei membri risulti molto difficile sia separarsi, che continuare a stare insieme all’interno di un rapporto che ormai, ha esaurito tutte le sue risorse.

In questi casi, quindi, la decisione di separarsi o non viene assunta o viene procrastinata, con il risultato che la situazione di conflittualità o di disagio tra i coniugi e/o i conviventi può raggiungere livelli di aggressività tale da configurare il reato in questione.

Spesso le ragioni che stanno alla base della scelta di non separarsi, sono di natura economica (penso a chi ha acquistato una casa insieme, magari gravata da un’ipoteca a garanzia di un mutuo che deve essere pagato), a questioni di “comodità” nella gestione della famiglia, perché magari i genitori o i nonni abitano nella casa attigua o peggio ancora, nella stessa unità abitativa. In altri casi, ci possono essere ragioni collegate al preteso o presunto benessere dei figli ecc. ecc. ecc.

In tutte queste ipotesi, la coppia si trova in una sorta di “zona grigia”, ove non si prende né la decisione di separarsi, né quella di fare una terapia di coppia con l’ausilio di psicologi –psicoterapeuti che permettano alle persone di fare verità, prima dentro loro stessi e poi nell’ambito delle dinamiche di relazione comune.

Di fatto, in tutti questi i casi, le persone continuano a portare avanti una convivenza (coniugale o more uxorio), pur in assenza di una vera situazione di benessere ed equilibrio nel rapporto affettivo.

Queste situazioni sono le più difficili da “vivere” per il cliente che spesso arriva nello studio dell’avvocato già completamente logorato dal punto di vista psicologico e, una volta che ha assunto la decisione di separarsi, spesso è disposto a cedere moltissimo pur di non continuare ulteriormente a convivere con l’altra persona.

Ma, queste situazioni, sono complesse da gestire anche da parte del professionista che spesso viene bloccato dal cliente nella costruzione di una adeguata e tutelante difesa, perché proprio il cliente che, paradossalmente chiede aiuto all’avvocato, non riesce a reggere o non vuole affrontare il peso psicologico legato all’alea del giudizio.

In questa mia disamina, intendo quindi affrontare dal punto di vista penalistico, quei comportamenti che vengono spesso subiti all’interno delle mura domestiche dalla parte più fragile del rapporto di coppia, ad opera di chi, invece, scarica e trasferisce sull’altro tutta l’aggressività e la frustrazione legati ad una situazione sentimentale non gratificante ed appagante.

Spesso a configurare il reato di maltrattamenti in famiglia, sono proprio le condotte vessatorie ed aggressive (non necessariamente in senso fisico) che, vengono reiterate nel tempo, proprio a causa del prolungarsi di una sorta di convivenza forzata.

Situazioni quindi che ingenerano veri e propri meccanismi persecutori e denigratori nei confronti dell’altro membro della coppia.

Ma entriamo nel dettaglio del reato, per poi andare a verificare come si è pronunciata nel tempo, la Cassazione, individuando le condotte integranti la fattispecie delittuosa, pur in assenza di atti di  violenza fisica.

Recita l’art. 572 C.p.:

1. Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
2. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi.
4. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
5. Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato.

Si tratta dunque, di un reato che potremo definire grave in quanto la pena è quella della reclusione da 3 a 7 anni, con gli aumenti:

  • fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di una persona minore, di donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità o se commesso con armi;
  • da 4 a 9 anni di reclusione, se dal fatto deriva una lesione personale grave;
  • da 7 a 15 anni di reclusione se dal fatto deriva una lesione gravissima;
  • da 12 a 24 anni di reclusione se dal fatto deriva la morte della persona.

Il reato viene definito proprio in quanto può essere commesso solo da persona collegata al soggetto passivo del reato, da vincoli familiari o di convivenza o poiché risulta sottoposta alla relativa autorità.

Dal punto di vista dei rapporti familiari, la norma si fonda sulla importanza e sulla condizione che assume il vincolo affettivo tra le persone e tende a punirne ogni sopraffazione ad esso collegato e/o derivante.

Il reato è perseguibile d’ufficio.

All’interno della famiglia il reato di maltrattamenti punisce le condotte reiterate nel tempo che siano volontariamente lesive dell’integrità fisica, della libertà o del decoro, oppure degradanti fisicamente o moralmente, realizzate nei confronti di un membro della famiglia o di un convivente.

Quindi il reato si configura, non solo attraverso condotte che ledono l’integrità fisica delle persone, ma anche laddove le condotte, continuate nel tempo, siano finalizzate a offendere, ledere, sminuire l’amor proprio e la stima di sé di cui ogni persona è portatrice.

La Suprema Corte ha a più riprese esteso l’applicabilità di questa fattispecie delittuosa anche ai rapporti di convivenza more uxorio.

Infatti, è da molto tempo ormai che il concetto di famiglia, in quanto tale, non è più esclusivamente collegato al vincolo di coniugio.

Così con sentenza n. 25498/2019 ha stabilito che: “in assenza di vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente “more uxorio” con l’agente a condizione che quest’ultimo conservi con la vittima una stabilità di relazione dipendente dai doveri connessi alla filiazione”

In motivazione, la Suprema Corte aveva precisato che la permanenza del complesso di obblighi verso il figlio, implica il permanere in capo ai genitori, che avevano costituito una famiglia di fatto, dei doveri di collaborazione e di rispetto reciproco.

Ancora, recentemente con sentenza n. 10222/2019 la Cassazione ha stabilito che: “nel caso di convivenza more uxorio il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile soltanto per le condotte tenute fino a quando la convivenza non sia cessata, mentre le azioni violente o persecutorie compiute in epoca successiva, possono integrare il delitto di atti persecutori”.

Con ciò evidenziando che, ai fini della configurabilità del reato in questione, poco importa se il vincolo familiare è fondato o meno sul matrimonio.

Inoltre il reato in questione ha le caratteristiche di reato abituale proprio per cui la condotta, omissiva o commissiva, che integra la fattispecie deve essere protratta nel tempo e posta in essere da persone legate da vincoli di parentela o comunque familiari.

E’ chiaro che questo reato nasce con l’intento di dare protezione ai soggetti vulnerabili, ossia quelle persone che, spesso come i minori non hanno altra scelta se non quella di cedere all’abuso.

E, come è stato recentemente sostenuto dalla Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 34351/2020 il reato si configura anche quando le prevaricazioni, non sono solo fisiche, ma anche verbali purchè abbiamo il requisito della costanza, essendo ripetute nel tempo.

Pertanto anche i continui insulti del tipo “sei una scrofa” “come sei brutta” “copriti, fai schifo” “sei grassa” “dovrei cambiare le porte perché non c’entri più” “tra dieci anni ti cambio con una più giovane e più bella” pronunciati ogni giorno e non esclusivamente durante i litigi, configurano il reato in questione.

Nel caso in esame, era poi emerso che il marito non solo era solito denigrare quotidianamente la moglie con i siffatti epiteti offensivi, ma le faceva pesare il fatto di non contribuire alle spese domestiche e di essere a suo carico perché impegnata negli studi universitari, instaurando una situazione di vita logorante essendo finalizzata al continuo discredito, tale da minarne la personalità.

La pronuncia in questione, si innesta nel solco tracciato da una vecchissima pronuncia della Cassazione (Cass. Pen 3020/1991 del 8.3.1991) secondo cui: “nella nozione di maltrattamenti rientrano i fatti lesivi dell’integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, che rendono abitualmente dolorose le relazioni familiari e manifestantisi mediante le sofferenze morali che determinano uno stato di avvilimento con atti e parole che offendono il decoro e la dignità della persona, ovvero con violenze capaci di produrre sensazioni dolorose ancorchè tali da non lasciare traccia”.

Dal punto di vista della relazione con i figli e, sempre declinando la fattispecie in esame, nell’ottica di rapporti ormai logorati da tempo nei quali le persone, non decidono di addivenire alla propria separazione, ponendo in essere atteggiamenti tali da sfogare la propria rabbia e/o frustrazione sull’altro membro della coppia, evidenzio che con sentenza n. 32368 del 13.7.2018 la Cassazione V Sezione Penale ha stabilito che “integrano il reato di maltrattamenti in danno del figlio minore, anche le condotte persecutorie poste in essere da un genitore nei confronti dell’altro quando il figlio è costretto ad assistervi sistematicamente, trattandosi di condotta espressivadi una consapevole indifferenza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali del minore ed idonea a provocare sentimenti di sofferenza e frustrazione in quest’ultimo”.

Sempre nell’ottica della protezione del benessere psicologico dei figli minori, si osserva l’altra recente pronuncia della Suprema Corte (Cassazione Penale Sez. VI, sentenza n. 18833 del 2.5.2018) secondo cui: “il delitto di maltrattamenti è configurabile anche nel caso in cui i comportamenti vessatori non siano rivolti direttamente in danno dei figli minori, ma li coinvolgano indirettamente, come involontari spettatori delle liti tra i genitori che si svolgano all’interno delle mura domestiche (cd. Violenza assistita) sempre che sia stata accertata l’abitualità delle condotte e la loro idoneità a cagionare uno stato di sofferenza psicofisica dei minori spettatori passivi.

Pertanto, alla luce di questa breve disamina, il consiglio che si può dare sia alle coppie sposate che non, con o senza figli, è quelli di cercare, non solo di mantenere un clima familiare il più rispettoso possibile pur in assenza del vincolo affettivo e progettuale che teneva unita la coppia, ma anche quello di evitare di far assistere ai figli inopportuni quanto diseducativi e traumatizzanti sfoghi di rabbia o tensione tra i genitori che si concretizzino nell’impiego di frasi irrispettose e ingiurianti.

Altro consiglio che si può dare è quello di recarsi da un avvocato anche solo per avere una consulenza ad hoc per capire quali siano, in ogni singolo caso, non solo i comportamenti da evitare, ma anche quelli più appropriati da tenere anche solo per stemperare o ridurre lo stato di tensione che inevitabilmente una convivenza forzata può generare.

Avv. Federica Novaga

NOTA LEGALE
Questo articolo (e tutte le informazioni a cui si accede tramite collegamenti in questo documento) è fornito al solo scopo informativo e non costituisce consulenza legale. È necessario ricevere una consulenza legale professionale, prima di intraprendere o astenersi dall’intraprendere qualsiasi azione legale inerente al contenuto di questo documento. - Riproduzione riservata
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