IL DISACCORDO DEI GENITORI NELLA VACCINAZIONE DEI FIGLI MINORI

In tema di affidamento condiviso dei figli minori tra i genitori separati o comunque non sposati che interrompano una convivenza more uxorio e più in generale in ordine alle scelte di maggior interesse da adottare durante la vita dei figli per il perseguimento del loro benessere e del loro corretto sviluppo psico-fisico, ci sono anche quelle relative alla scelta dei trattamenti sanitari da adottare.

Trattamenti che, in un clima di assoluta identità di vedute dei genitori, vengono in genere autorizzati da entrambi.

Per quanto riguarda la tematica delle vaccinazioni, il Decreto Legge 7 giugno 2017 n. 73 (Disposizioni urgenti in materia di prevenzione vaccinale) modificato dalla Legge di conversione 31.07.2017 n. 119, prevede le seguenti vaccinazioni obbligatorie per i minori di età compresa tra 0 e 16 anni, nonché le vaccinazioni obbligatorie per i minori non accompagnati.

La previsione normativa attualmente in vigore prevede l’obbligatorietà dei seguenti vaccini:

L’obbligatorietà delle ultime quattro vaccinazioni (anti-morbillo, anti-rosolia, anti-parotite, anti-varicella) è soggetta a revisione ogni tre anni in base ai dati epidemiologici.

Sono inoltre indicate da parte delle Regioni e delle Province autonome le seguenti ulteriori vaccinazioni:

Queste ultime tuttavia non prevedono alcun obbligo vaccinale.

In linea di massima, il rispetto degli obblighi vaccinali, diventa un requisito per l’ammissione all’asilo nido e alle scuole dell’infanzia per bambini da 0 a 6 anni, mentre dalla scuola primaria in poi, i bambini possono comunque accedere a scuola e fare gli esami, ma in caso non siano stati rispettati tutti gli obblighi, viene attivato dalla Ausl competente, un percorso finalizzato al recupero delle vaccinazioni.

In capo ai genitori, poi è possibile l’irrogazione di sanzioni amministrative.

E’ chiaro che l’obbligo vaccinale non si applica ai bambini che presentino particolari condizioni di salute tali per cui il vaccino o i vaccini sarebbero controindicati.

Attualmente poi con l’avvento dell’emergenza pandemica da Coronavirus, si pone il problema di analizzare la questione vaccinale anche con riferimento alla possibilità attualmente allo studio dell’EMA (Agenzia Europea per i Medicinali) e dall’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) di estendere la somministrazione ai bambini della fascia di età compresa tra i 5 e gli 11 anni.

Alla data di redazione del presente approfondimento l’AIFA non si è ancora pronunciata, in quanto si attende una sua indicazione per la prima settimana del mese di dicembre 2021.

Tuttavia, l’attuale scenario pandemico e le differenti opinioni della società in tema di vaccinazione, hanno comportato per i Tribunali la necessità di pronunce riguardanti l’autorizzazione o meno a trattamenti sanitari in capo a minori, nei casi (ormai non frequenti) di conflitti che vedono contrapposti i genitori che siano favorevoli e quelli che siano sfavorevoli ai vaccini.

Il Tribunale di Milano con decreto 2 settembre 2021 è intervenuto su ricorso di un padre separato dalla madre, onde dirimere il contrasto tra i genitori. Il padre infatti era favorevole a somministrare alla figlia (del tutto sprovvista) delle vaccinazioni obbligatorie per legge e a sottoporre la stessa anche al trattamento contro il Coronavirus, mentre la madre era ferma nella propria volontà di non vaccinare la figlia undicenne.

Il padre agendo ai sensi dell’art. 709 C.p.c. chiedeva di essere autorizzato a somministrare alla figlia le vaccinazioni obbligatorie per legge che non erano ancora state effettuate, nonché di somministrare alla stessa, al compimento del 12simo anno di età il vaccino contro il Covid -19. Chiedeva inoltre di essere autorizzato a sottoporre la figlia a tamponi periodici.

La madre profondamente contraria sia alle vaccinazioni, sia all’uso della mascherina, si costituiva in giudizio opponendosi, chiedendo che venisse disposta una CTU medico-scientifica onde valutare il rapporto rischi-benefici dei vaccini, e al fine di pronunciarsi in ordine all’uso dannoso della mascherina.

Chiedeva poi che venisse disposta una CTU psicologica in capo al padre, al fine di valutare sia la sua capacità genitoriale sia la sua capacità di discernimento in merito alle decisioni sanitarie riguardanti la figlia.

Chiedeva, infine la madre, che venisse disposto in capo a sé l’affido esclusivo della figlia minorenne.

Il Tribunale di Milano, in linea con alcune proprie precedenti pronunce e in linea con decisioni di altri Tribunali Italiani in materia (Tribunale di Bologna 13.10.2021; Tribunale di Monza 22.7.2021; Tribunale di Trento 20.7.2020) accoglie il ricorso autorizzando il padre a vaccinare la figlia senza il consenso della madre.

Il Tribunale nel motivare la propria decisione (avente ad oggetto anche la sollevata questione di legittimità costituzionale dell’obbligo vaccinale per alcune malattie oggetto della difesa materna) ricorda in primo luogo che la Corte Costituzionale con sentenza n. 5 del 18.01.2018 ha chiarito che l’art. 32 della Costituzione compara - effettuandone un bilanciamento-  il diritto alla salute del singolo con il diritto alla salute di cui gode la collettività, prevedendo che la legge che impone un trattamento obbligatorio per legge non viola il disposto costituzionale, laddove il trattamento sanitario sia disposto a vantaggio della salute di tutti.

In secondo luogo il Tribunale, posto che la madre nella propria linea difensiva non aveva prodotto alcuna documentazione attestante l’esistenza di uno stato di salute tale da rendere consigliabile nell’interesse precipuo della figlia, di evitare le vaccinazioni (sia quelle obbligatorie che quelle relative al Coronavirus), ma avendo semplicemente espresso la propria contrarietà a tutti i vaccini, dichiara che le teorie di una minoranza di soggetti che si pongono in contrasto con le evidenze di carattere scientifiche e gli studi medici, non possono essere assunte come parametri con i quali garantire il diritto alla salute della figlia, esponendola - a contrario - al rischio di contrarre gravi malattie.

Di conseguenza, accogliendo la domanda del padre, il Tribunale meneghino disponeva, non solo  lo spostamento della responsabilità genitoriale in via esclusiva al padre per quanto riguarda le decisioni di carattere sanitario oggetto della richiesta, ma lo autorizzava a decidere in autonomia e senza il preventivo accordo con la madre, se sottoporre la figlia alla somministrazione della profilassi anti Coronavirus.

La vicenda in esame è quindi piuttosto interessante in quanto ci rimanda al formarsi di orientamento della giurisprudenza di merito che, in una situazione qual è quella che si va profilando all’orizzonte, circa la possibilità o meno di sottoporre i bambini dai 5 agli 11 anni alla somministrazione di farmaci contro il Coronavirus prodotti dalle case farmaceutiche ad oggi autorizzate, non può che portare ad un aumento della conflittualità tra i genitori in merito ad un argomento di sicuro interesse e preoccupazione qual è quello della salute dei figli.

Avv. Federica Novaga

IL REATO DI MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: UNA BREVE DISAMINA ALLA LUCE DI ALCUNE SENTENZE DELLA CASSAZIONE

Spesso chi si occupa di diritto di famiglia, assiste seppur indirettamente a situazioni affettive e/o coniugali che raggiungono picchi degenerativi, tali da indurre l’avvocato a proporre al cliente di sporgere atto di denuncia querela per maltrattamenti.

Infatti, alle volte può accadere che, nonostante entrambi i membri della coppia abbiano esaurito le risorse umane, affettive e relazionali in forza delle quali mantenere in piedi una comunione di vita,  tale per cui sarebbe forse più saggio e più “salutare” decidere di comune accordo di interrompere il legame ed iniziare separatamente un nuovo percorso di vita, questa situazione di fatto non si verifica o, se si verifica, non avviene in modo equilibrato e maturo.

Mi riferisco a quelle coppie con figli o senza figli che – per ragioni spesso oscure agli occhi degli estranei – nonostante l’estremo disagio e la fatica continuino a stare insieme o a quelle coppie in cui, per uno dei membri risulti molto difficile sia separarsi, che continuare a stare insieme all’interno di un rapporto che ormai, ha esaurito tutte le sue risorse.

In questi casi, quindi, la decisione di separarsi o non viene assunta o viene procrastinata, con il risultato che la situazione di conflittualità o di disagio tra i coniugi e/o i conviventi può raggiungere livelli di aggressività tale da configurare il reato in questione.

Spesso le ragioni che stanno alla base della scelta di non separarsi, sono di natura economica (penso a chi ha acquistato una casa insieme, magari gravata da un’ipoteca a garanzia di un mutuo che deve essere pagato), a questioni di “comodità” nella gestione della famiglia, perché magari i genitori o i nonni abitano nella casa attigua o peggio ancora, nella stessa unità abitativa. In altri casi, ci possono essere ragioni collegate al preteso o presunto benessere dei figli ecc. ecc. ecc.

In tutte queste ipotesi, la coppia si trova in una sorta di “zona grigia”, ove non si prende né la decisione di separarsi, né quella di fare una terapia di coppia con l’ausilio di psicologi –psicoterapeuti che permettano alle persone di fare verità, prima dentro loro stessi e poi nell’ambito delle dinamiche di relazione comune.

Di fatto, in tutti questi i casi, le persone continuano a portare avanti una convivenza (coniugale o more uxorio), pur in assenza di una vera situazione di benessere ed equilibrio nel rapporto affettivo.

Queste situazioni sono le più difficili da “vivere” per il cliente che spesso arriva nello studio dell’avvocato già completamente logorato dal punto di vista psicologico e, una volta che ha assunto la decisione di separarsi, spesso è disposto a cedere moltissimo pur di non continuare ulteriormente a convivere con l’altra persona.

Ma, queste situazioni, sono complesse da gestire anche da parte del professionista che spesso viene bloccato dal cliente nella costruzione di una adeguata e tutelante difesa, perché proprio il cliente che, paradossalmente chiede aiuto all’avvocato, non riesce a reggere o non vuole affrontare il peso psicologico legato all’alea del giudizio.

In questa mia disamina, intendo quindi affrontare dal punto di vista penalistico, quei comportamenti che vengono spesso subiti all’interno delle mura domestiche dalla parte più fragile del rapporto di coppia, ad opera di chi, invece, scarica e trasferisce sull’altro tutta l’aggressività e la frustrazione legati ad una situazione sentimentale non gratificante ed appagante.

Spesso a configurare il reato di maltrattamenti in famiglia, sono proprio le condotte vessatorie ed aggressive (non necessariamente in senso fisico) che, vengono reiterate nel tempo, proprio a causa del prolungarsi di una sorta di convivenza forzata.

Situazioni quindi che ingenerano veri e propri meccanismi persecutori e denigratori nei confronti dell’altro membro della coppia.

Ma entriamo nel dettaglio del reato, per poi andare a verificare come si è pronunciata nel tempo, la Cassazione, individuando le condotte integranti la fattispecie delittuosa, pur in assenza di atti di  violenza fisica.

Recita l’art. 572 C.p.:

1. Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
2. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi.
4. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
5. Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato.

Si tratta dunque, di un reato che potremo definire grave in quanto la pena è quella della reclusione da 3 a 7 anni, con gli aumenti:

Il reato viene definito proprio in quanto può essere commesso solo da persona collegata al soggetto passivo del reato, da vincoli familiari o di convivenza o poiché risulta sottoposta alla relativa autorità.

Dal punto di vista dei rapporti familiari, la norma si fonda sulla importanza e sulla condizione che assume il vincolo affettivo tra le persone e tende a punirne ogni sopraffazione ad esso collegato e/o derivante.

Il reato è perseguibile d’ufficio.

All’interno della famiglia il reato di maltrattamenti punisce le condotte reiterate nel tempo che siano volontariamente lesive dell’integrità fisica, della libertà o del decoro, oppure degradanti fisicamente o moralmente, realizzate nei confronti di un membro della famiglia o di un convivente.

Quindi il reato si configura, non solo attraverso condotte che ledono l’integrità fisica delle persone, ma anche laddove le condotte, continuate nel tempo, siano finalizzate a offendere, ledere, sminuire l’amor proprio e la stima di sé di cui ogni persona è portatrice.

La Suprema Corte ha a più riprese esteso l’applicabilità di questa fattispecie delittuosa anche ai rapporti di convivenza more uxorio.

Infatti, è da molto tempo ormai che il concetto di famiglia, in quanto tale, non è più esclusivamente collegato al vincolo di coniugio.

Così con sentenza n. 25498/2019 ha stabilito che: “in assenza di vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente “more uxorio” con l’agente a condizione che quest’ultimo conservi con la vittima una stabilità di relazione dipendente dai doveri connessi alla filiazione”

In motivazione, la Suprema Corte aveva precisato che la permanenza del complesso di obblighi verso il figlio, implica il permanere in capo ai genitori, che avevano costituito una famiglia di fatto, dei doveri di collaborazione e di rispetto reciproco.

Ancora, recentemente con sentenza n. 10222/2019 la Cassazione ha stabilito che: “nel caso di convivenza more uxorio il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile soltanto per le condotte tenute fino a quando la convivenza non sia cessata, mentre le azioni violente o persecutorie compiute in epoca successiva, possono integrare il delitto di atti persecutori”.

Con ciò evidenziando che, ai fini della configurabilità del reato in questione, poco importa se il vincolo familiare è fondato o meno sul matrimonio.

Inoltre il reato in questione ha le caratteristiche di reato abituale proprio per cui la condotta, omissiva o commissiva, che integra la fattispecie deve essere protratta nel tempo e posta in essere da persone legate da vincoli di parentela o comunque familiari.

E’ chiaro che questo reato nasce con l’intento di dare protezione ai soggetti vulnerabili, ossia quelle persone che, spesso come i minori non hanno altra scelta se non quella di cedere all’abuso.

E, come è stato recentemente sostenuto dalla Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 34351/2020 il reato si configura anche quando le prevaricazioni, non sono solo fisiche, ma anche verbali purchè abbiamo il requisito della costanza, essendo ripetute nel tempo.

Pertanto anche i continui insulti del tipo “sei una scrofa” “come sei brutta” “copriti, fai schifo” “sei grassa” “dovrei cambiare le porte perché non c’entri più” “tra dieci anni ti cambio con una più giovane e più bella” pronunciati ogni giorno e non esclusivamente durante i litigi, configurano il reato in questione.

Nel caso in esame, era poi emerso che il marito non solo era solito denigrare quotidianamente la moglie con i siffatti epiteti offensivi, ma le faceva pesare il fatto di non contribuire alle spese domestiche e di essere a suo carico perché impegnata negli studi universitari, instaurando una situazione di vita logorante essendo finalizzata al continuo discredito, tale da minarne la personalità.

La pronuncia in questione, si innesta nel solco tracciato da una vecchissima pronuncia della Cassazione (Cass. Pen 3020/1991 del 8.3.1991) secondo cui: “nella nozione di maltrattamenti rientrano i fatti lesivi dell’integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, che rendono abitualmente dolorose le relazioni familiari e manifestantisi mediante le sofferenze morali che determinano uno stato di avvilimento con atti e parole che offendono il decoro e la dignità della persona, ovvero con violenze capaci di produrre sensazioni dolorose ancorchè tali da non lasciare traccia”.

Dal punto di vista della relazione con i figli e, sempre declinando la fattispecie in esame, nell’ottica di rapporti ormai logorati da tempo nei quali le persone, non decidono di addivenire alla propria separazione, ponendo in essere atteggiamenti tali da sfogare la propria rabbia e/o frustrazione sull’altro membro della coppia, evidenzio che con sentenza n. 32368 del 13.7.2018 la Cassazione V Sezione Penale ha stabilito che “integrano il reato di maltrattamenti in danno del figlio minore, anche le condotte persecutorie poste in essere da un genitore nei confronti dell’altro quando il figlio è costretto ad assistervi sistematicamente, trattandosi di condotta espressivadi una consapevole indifferenza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali del minore ed idonea a provocare sentimenti di sofferenza e frustrazione in quest’ultimo”.

Sempre nell’ottica della protezione del benessere psicologico dei figli minori, si osserva l’altra recente pronuncia della Suprema Corte (Cassazione Penale Sez. VI, sentenza n. 18833 del 2.5.2018) secondo cui: “il delitto di maltrattamenti è configurabile anche nel caso in cui i comportamenti vessatori non siano rivolti direttamente in danno dei figli minori, ma li coinvolgano indirettamente, come involontari spettatori delle liti tra i genitori che si svolgano all’interno delle mura domestiche (cd. Violenza assistita) sempre che sia stata accertata l’abitualità delle condotte e la loro idoneità a cagionare uno stato di sofferenza psicofisica dei minori spettatori passivi.

Pertanto, alla luce di questa breve disamina, il consiglio che si può dare sia alle coppie sposate che non, con o senza figli, è quelli di cercare, non solo di mantenere un clima familiare il più rispettoso possibile pur in assenza del vincolo affettivo e progettuale che teneva unita la coppia, ma anche quello di evitare di far assistere ai figli inopportuni quanto diseducativi e traumatizzanti sfoghi di rabbia o tensione tra i genitori che si concretizzino nell’impiego di frasi irrispettose e ingiurianti.

Altro consiglio che si può dare è quello di recarsi da un avvocato anche solo per avere una consulenza ad hoc per capire quali siano, in ogni singolo caso, non solo i comportamenti da evitare, ma anche quelli più appropriati da tenere anche solo per stemperare o ridurre lo stato di tensione che inevitabilmente una convivenza forzata può generare.

Avv. Federica Novaga

DIVORZIO, RICHIESTA DI MODIFICA DELLE CONDIZIONI RELATIVE ALL’ESERCIZIO DELLE RESPONSABILITA’ GENITORIALI E COMPETENZA TERRITORIALE

A norma dell’art. 709 ter C.p.c. 1° commaPer la  soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità di affidamento dei minori è competente il giudice del procedimento in corso. Per i procedimenti di cui all’art. 710 è competente il tribunale del luogo di residenza del minore”

Con ordinanza resa in data 20.7.2020 n. 15421 la Cassazione Civile Sez. VI ha stabilito che “le controversie che hanno ad oggetto l’affidamento e il mantenimento dei minori, ancorchè contenute in una pronuncia di separazione giudiziale o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, devono essere radicate nel luogo di residenza abituale del minore” con ciò eliminando ogni dubbio interpretativo in ordine alla locuzione “è competente il giudice del procedimento in corso” ed evidenziando chiaramente che, laddove il procedimento di separazione o divorzio sia già definito, laddove si controverta in merito alla modifica delle condizioni di affidamento o mantenimento, competente a dirimere dette questioni è il Giudice del luogo di residenza abituale del figlio minorenne.

Statuisce sempre la Cassazione, sulla scia dei due precedenti pronunce (Cass. Civ. 25636/2016; Cass. Civ. 27153/2017) che … “il principio espresso dall’art. 709 ter C.p.c., in sintonia con il preminente interesse del minore, deve ritenersi esteso anche alle determinazioni sui figli minori conseguenti il divorzio, essendo identico l’oggetto della controversia ex art. 709 ter C.p.c. e quelle riguardanti la modifica delle determinazioni relative all’affidamento e al mantenimento dei minori, in quanto entrambe relative alla regolazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale”.

Detto principio è poi ulteriormente rafforzato dall’art. 337 quinquies il quale prevede in via generale il diritto di richiedere la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della responsabilità genitoriale su di essi e delle eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo.

La pronuncia e il principio ivi contenuto, non incide sulla correttezza della regola contenuta nella Legge 898/1970 art. 12 quater, posto che questa si limita ad introdurre un foro concorrente (quello del luogo in cui deve essere eseguita l’obbligazione) ma non esclude l’applicazione di quello relativo alla residenza abituale dei minori.

In sostanza, quindi, laddove la sentenza di divorzio sia stata pronunciata ad esempio, dal Tribunale di Ravenna, ma il minore risieda abitualmente a Firenze, le controversie con le quali si discuta in merito alla modifica delle condizioni di affidamento e le modalità di esercizio della responsabilità genitoriale, dovranno essere radicate presso il Tribunale di Firenze, essendo il foro territorialmente competente a deciderle in base al disposto di cui all’art. 709 ter C.p.c..

PIGNORABILITA’ DEL REDDITO DI CITTADINANZA E MANTENIMENTO DEI FIGLI MINORI

Lo afferma il Tribunale di Trani con ordinanza del 30.01.2020 a scioglimento della riserva con cui veniva chiamato a decidere in ordine al ricorso assunto a norma dell’art. 156 IV comma Cod. Civ. promosso dalla moglie collocataria di due figlie minori, titolari di un assegno di mantenimento posto a carico del padre.

A fondamento della decisione il Tribunale di Trani sottolinea i seguenti elementi:

  1. , introdotto dal Decreto Legge 4 del 2019, convertito con modificazione alla Legge n. 26/2019, può essere utilizzato per i bisogni primari delle persone delle quali il titolare ha l’obbligo di prendersi cura anche se non fa più parte del medesimo nucleo familiare;
  2. , dunque non possono essere interpretate estensivamente, conseguentemente rimane fermo il principio generale stabilito a norma dell’art. 2740 Cod. Civ. secondo cui il creditore può, per soddisfare il proprio credito, aggredire tutti i beni presenti e futuri appartenenti al debitore, compreso il reddito di cittadinanza.

E’ dunque pacificamente pignorabile il reddito di cittadinanza.

Di conseguenza il coniuge collocatario dei figli minorenni può, legittimamente, chiedere che il Tribunale emetta nei confronti del Ministero del Lavoro e/o dell’INPS l’ordine di pagamento diretto, a norma dell’art. 156 IV comma Cod. Civ. dell’assegno di mantenimento prelevandone l’importo dal reddito di cittadinanza.

Avv. Federica Novaga

ASSEGNAZIONE DELLA CASA FAMILIARE: VA AL GENITORE COLLOCATARIO DELLA PROLE ANCHE SE L’AVEVA ABBANDONATA PRIMA DEL GIUDIZIO

La Corte di Cassazione conferma il proprio pacifico orientamento in materia di assegnazione della casa coniugale al genitore collocatario dei figli minorenni nati dalla relazione.

E lo fa, anche laddove il genitore collocatario abbia, prima del giudizio, abbandonato la casa familiare unitamente alla prole.

E’ quanto affermato nella Sentenza della Sez. VI del 13.12.2018 viene ribadito il principio secondo cui “il godimento della casa familiare a seguito della separazione dei genitori, anche se non uniti in matrimonio, ai sensi dell’art. 337 sexies Cod. Civ. è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli, occorrendo soddisfare l’esigenza di assicurare loro la conservazione dell’“habitat” domestico, da intendersi come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare e la casa, può perciò essere assegnata al genitore collocatario del minore, che pur se ne sia allontanato prima della introduzione del giudizio”

Il principio viene espresso, in quanto la Suprema Corte è stata chiamata a giudicare in merito alla richiesta di cassazione della sentenza della Corte d’Appello che aveva assegnato alla madre, collocataria del figlio minorenne, la casa familiare.

In sostanza in detta sentenza la Cassazione non solo ritiene non ostativa per l’assegnazione della casa familiare alla donna,  la circostanza che questa si sia allontanata dalla casa familiare in conseguenza della crisi del rapporto di coppia prima di proporre il ricorso per separazione in Tribunale, ma ritiene ininfluente, ai fini di mantenere in capo ad essa l’assegnazione della casa familiare, il lungo lasso di tempo trascorso tra l’abbandono della casa familiare e la pronuncia della sentenza.

Ciò in quanto – si legge nella sentenza – la lunghezza del processo non può ritorcersi in un pregiudizio per l’interesse del minore.

Avv. Federica Novaga

PENSIONE DI REVERSIBILITA’: CRITERI DI RIPARTIZIONE TRA EX CONIUGE E CONIUGE SUPERSTITE

Una questione da sempre controversa in giurisprudenza è quella della ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge superstite e coniuge divorziato titolare dell’assegno di mantenimento.

La pensione di reversibilità spetta non solo al coniuge superstite al momento del decesso, ma laddove il de cuius fosse divorziato anche all'ex coniuge al quale in sede di divorzio sia stato riconosciuto il diritto ad un assegno di mantenimento.

Presupposti fondamentali al ricorrere dei quali è subordinata la pensione di reversibilità del coniuge divorziato sono i seguenti:

Uno degli elementi sempre difficili da determinare ex ante è l’entità del criterio di ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge superstite ed ex coniuge titolare del diritto all’assegno divorzile.

L’art. 9 della legge sul divorzio dispone infatti che  il coniuge divorziato "in caso di morte dell'ex coniuge ed in assenza di un coniuge superstite, avente i requisiti per la pensione di reversibilità, ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell'art.5, alla pensione di reversibilità, sempre che il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza".

Il terzo comma statuisce che "qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal Tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell'assegno di cui all'art.5 …".

Il legislatore ha stabilito che la pensione di reversibilità, in caso di concorso tra ex coniuge e coniuge superstite sia attribuita tenendo conto della "durata del rapporto".

Sul punto una recente ordinanza della Cassazione (ordinanza n. 52687/2020) ha rigettato il ricorso avanzato contro una sentenza della Corte d’Appello, promosso dall’ex moglie divorziata che si è vista ridurre al 35% il valore della pensione di reversibilità, in favore del 65% alla nuova moglie superstite dell'ex marito, sulla base del fatto che, nel computo del 65% (quale criterio di ripartizione) il giudice del merito aveva tenuto conto anche del periodo di convivenza prematrimoniale la nuova moglie e il marito poi deceduto.

In sostanza nell’ordinanza la Cassazione ribadisce il principio, precedentemente stabilito con sentenza n. 26358/2011 secondo cui “la ripartizione del trattamento di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite, entrambi aventi i requisiti per la relativa pensione, va effettuata oltre che sulla base del criterio della durata dei matrimoni, ponderando ulteriori elementi correlati alla finalità solidaristica dell’istituto, tra i quali la durata delle convivenze prematrimoniali dovendosi riconoscere alla convivenza more uxorio, non una semplice valenza correttiva dei risultati derivanti dall’applicazione del criterio della durata del rapporto matrimoniale, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato provi stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale,

In sostanza quindi, nel computo della durata del rapporto occorre tener conto non solo degli anni di matrimonio effettivo, ma è possibile sommare quelli della convivenza prematrimoniale al successivo matrimonio.

E ciò poichè è evidente che se alla convivenza prematrimoniale è susseguito il matrimonio la convivenza è prova di stabilità di lungo periodo del rapporto affettivo.

Avv. Federica Novaga

ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE: BASTANO LE FOTO DA CUI SI DESUMA L'ESISTENZA DI UN RAPPORTO INTIMO

E’ noto che tra i doveri che previsti a norma dell'art. 143 Cod. Civ. che incombono in capo ai coniugi a seguito del matrimonio, c'è anche l'obbligo reciproco alla fedeltà, oltre che all'assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell'interesse della famiglia e alla coabitazione.

Ora, la violazione di uno di questi doveri, può essere invocata, in sede di separazione quale, elemento di addebito, che laddove attribuito al coniuge economicamente più debole, permette di escludere in capo al medesimo il diritto alla corresponsione dell'assegno di mantenimento.

Con ordinanza n. 4899/2020 del 24.02.2020 la Cassazione ha stabilito che è corretta la pronuncia di addebito della separazione in capo al coniuge per infedeltà, laddove sostenuta da alcune foto che ritraggono il coniuge con un'altra persona in atteggiamenti intimi.

A sostegno di questa massima è, secondo la Corte di Cassazione, il fatto che la comune esperienza induce a presumere dalle fotografie, l'esistenza di una relazione extraconiugale.

Avv. Federica Novaga

LA CASSAZIONE CONFERMA I NUOVI CRITERI PER LA DETERMINAZIONE DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO IN FAVORE DEL CONIUGE DIVORZIATO

Con una nuova sentenza la numero 5603/2020 la Cassazione (1° Sezione Civile) torna a pronunciarsi in merito ai criteri da valutare per decidere sulla domanda di corresponsione dell’assegno di divorzio in favore del coniuge richiedente.

Stando a quanto disposto dall’art. 5 comma 6 della Legge 898/1970 (Legge istitutiva dello scioglimento del matrimonio) all’assegno di divorzio, deve attribuirsi una funzione assistenziale e compensativa in favore del coniuge che lo richieda.

Ciò richiede da parte del giudice di accertare:

  1. l’entità del patrimonio di cui gode il coniuge che chieda l’assegno divorzile;
  2. l’impossibilità oggettiva per il coniuge richiedente di procurarsi adeguati mezzi economici per il proprio sostentamento.

Questi sono in sostanza i primi due parametri cui il giudice, investito della controversia, deve prestare attenzione.

Detti parametri sono necessari a:

Oltre a questi elementi, vista la natura perequativo-compensativa dell’assegno divorzile, il giudice dovrà tener conto:

Il tutto, in modo da consentire a chi richiede l’assegno di raggiungere un livello reddituale adeguato al contributo fornito alla realizzazione della vita familiare, tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate.

Pertanto, funzione dell’assegno divorzile non è quello di permettere al richiedente, di conseguire una autosufficienza economica, o di godere del medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, bensì quello di permettere una sorta di riequilibrio tra le posizioni dei coniugi.

In quest’ottica occorrerà tener conto del ruolo e del contributo fornito dal coniuge economicamente più debole:

  1. alla realizzazione della vita familiare (si pensi al caso di una moglie che in assenza di aiuti da parte di altri familiari per la crescita dei figli nati dall’unione, rinunci alla propria carriera agevolando in tal modo quella del marito assente spesso per lavoro seguendo lo stesso, insieme ai figli, ogni volta in cui le esigenze lavorative del medesimo richiedano cambi di residenza e dunque traslochi, iscrizione dei figli a nuove e diverse scuole, creazione di nuove reti sociali e di relazione ecc. ecc.);
  2. alla formazione del patrimonio della famiglia;
  3. alla formazione del patrimonio personale degli ex coniugi (si pensi al caso di una coppia in regime di separazione dei beni, ove il marito guadagna molto più della moglie, la quale per accudire i figli e aderire ad un progetto di vita familiare con suddivisione spiccata dei ruoli, abbia rinunciato sia alla propria occupazione lavorativa, sia alla formazione di un proprio reddito. In tal caso la moglie ha indubbiamente concorso alla formazione del patrimonio personale del marito, il quale è stato libero di dedicarsi alla propria attività lavorativa, avendo comunque una famiglia e rimanendo la titolarità dei propri guadagni).

Sono quindi questi i parametri cui il giudice si deve attenere per valutare l’esistenza o meno del diritto del coniuge richiedente, ad ottenere la corresponsione dell’assegno di mantenimento.

E’ quanto affermato dalla Suprema Corte, con la sentenza in commento che si pone “in scia” con altre sentenze precedenti del medesimo tenore (Cass. Sez. Un. 11.7.2018 e Cass, 23.1.2019 N. 1882).

Avv. Federica Novaga  

Affido Condiviso e Preminente Interesse del Minore: No ad una Matematica Suddivisione dei Tempi Di Permanenza del Figlio Presso Ciascun Genitore

È quanto disposto da una recente ordinanza resa dalla Corte di Cassazione. Si tratta dell’ordinanza n. 3652/2020.

La vicenda trae origine da una situazione nella quale il Tribunale ha disposto l’affido condiviso della figlia minore di una coppia, con residenza prevalente presso la madre alla quale era stata assegnata la casa coniugale, disponendo la regolazione dei tempi di frequentazione della figlia con il padre.

Il padre, opponendosi alla decisione, propone reclamo alla Corte d’Appello chiedendo lo spostamento della residenza della figlia presso la propria abitazione, in modo da garantire una convivenza paritaria in termini temporali, della figlia con entrambi i genitori.

Anche la Corte d’Appello respinge la richiesta del padre, che propone ricorso per Cassazione.

La Cassazione respinge il ricorso affermando che: “la regolamentazione dei rapporti fra genitori non conviventi e figli minori non può avvenire sulla base di una simmetrica e paritaria ripartizione dei tempi di permanenza con entrambi i genitori ma deve essere il risultato di una valutazione ponderata del giudice di merito che, partendo dalla esigenza di garantire al minore la situazione più confacente al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena, tenga anche conto del suo diritto a una significativa e piena relazione con entrambi i genitori e del diritto di questi ultimi ad una piena realizzazione della loro relazione con i figli e all’esplicazione del loro ruolo educativo.”

In sostanza alla base della pronuncia stanno i seguenti principi:

  1. elemento primario che il giudice deve valutare nel disporre in merito ai criteri di affidamento del minore è il preminente interesse dello stesso a non subire ulteriori elementi di disagio o sconvolgimenti della propria condizione di vita rispetto alla rottura del nucleo familiare;
  2. sulla base di questi presupposti devono essere assunte le ulteriori decisioni in merito alla definizione del luogo di residenza del minore e l’indicazione del genitore collocatario;
  3. nel valutare la richiesta di spostamento della residenza della minore presso un altro genitore (il padre nel caso in esame) occorre tener conto dell’inutile turbamento che questo comporterebbe in capo alla minore, laddove la condizione di convivenza con la madre sia priva di elementi di disagio;
  4. risulta riduttivo e non corrispondente agli interessi del minore, assumere la decisione dello spostamento della residenza (nel caso in esame presso il padre) tenendo esclusivamente conto della compatibilità degli orari di lavoro del genitore e del tempo a disposizione della figlia.

Di conseguenza, anche alla luce di questa ulteriore pronuncia, occorre ricordare che l’affidamento condiviso del minore, non può essere inteso come attribuzione e suddivisione matematica dei tempi di permanenza del minore presso ciascun genitore, ma va valutato dal giudice di merito, caso per caso quale sia il preminente interesse del minore. In ogni caso, l’affidamento rimane condiviso nel senso che le decisioni di maggior interesse per il minore devono essere prese da entrambi i genitori e, tale principio non viene superato anche laddove, il figlio trascorra più tempo con un genitore rispetto ad un altro.